creatività: Virtù creativa, capacità di creare con l’intelletto, con la fantasia. – Treccani La parola creatività entra nel lessico italiano dagli anni ’50. Tutti gli uomini possono essere creativi, cioè sanno rintracciare nuovi legami tra elementi già noti? Tutti sanno essere fantasiosi e ideare nuovi nessi? Inventare e giungere a conclusioni innovative? Forse l’uomo creativo è quell’uomo che a partire da tutto ciò che ha già dentro ricombina gli elementi e plasma qualcosa di nuovo. E’ animato da un impulso che lo spinge al cambiamento, ad abbandonare ciò che è noto per raggiungere un nuovo orizzonte. Può condurlo verso una nuova destinazione e con vari mezzi e strumenti. Può ordinare delle parole in versi, partire da un foglio bianco e una matita, da un legno e una pietra focaia. Poincarè ci dice che colui che crea dà forma a qualcosa di nuovo, inedito nella storia dell’uomo, significativo e degno di nota agli occhi di altri, quindi riconosciuto nel suo valore.
"Gli altri hanno visto quello che c’è già e si sono chiesti perché. Io ho visto ciò che potrebbe essere e mi sono chiesto perché no." -Picasso
Può darsi che la creatività richieda coraggio, ovvero il coraggio di sbilanciarsi, di lasciare ciò che è noto verso una nuova meta sconosciuta ma promettente, di abbandonarsi al flusso senza timore di non ritrovarsi. Magari per esprimere la creatività serve affidarsi al proprio intuito, ad un sesto senso, ad uno stato interiore al tempo stesso di tensione e trasporto. Comunque, probabilmente, abbiamo bisogno di rintracciare una struttura e delle regole attraverso cui plasmare un prodotto della nostra creatività, di assiomi e capisaldi del nostro ambito. Un limite dipende dal punto di vista. Per esempio esistono diverse tecniche artistiche e regole di metrica: se non le conosco potrò fare qualcosa di nuovo; mi viene da chiedermi che rapporto avrebbe quel qualcosa di nuovo con “tutto ciò che viene prima”; chi ha creato conosceva la storia del suo mezzo di espressione? Comunque, potrebbe essere ancora considerato prodotto storico (frutto dell’uomo, in un preciso momento e contesto) ed affonderebbe le sue radici nei problemi e nel contesto di quella data età e nella condizione di quel determinato uomo; forse nel realizzare qualcosa nell’ignoranza delle regole (quando non ne siamo a conoscenza), dimentichiamo che siamo frutto di una stratificazione, di tutto ciò che gli uomini prima della nostra nascita hanno ideato, concluso, e su cui loro hanno riflettuto; comunque non è mancato chi le regole le ha sovvertite. Non so se sarebbe giusto o sbagliato realizzare qualcosa con una regola o una tecnica nota o decidere di non adottarla, forse il prodotto della nostra creatività trascende le categorie di giusto e sbagliato. Possiamo dire che un’opera d’arte o una poesia descrivono qualcosa che per noi è eticamente o moralmente giusto o sbagliato, però giusto e sbagliato non sono attribuibili a quell’opera. E’ stata una scelta del creativo. Un’opera d’arte è quella che è, non solo esteticamente ma nel il suo valore (le sue qualificazioni, il valore che gli attribuiamo, come ha inciso sulla storia del rapporto dell’uomo e dell’arte operando una frattura, un nuovo modus operandi, un elemento inedito…)… Sicuramente i critici d’arte, i filosofi e i letterati danno spiegazioni più ampie e coinvolgenti. Sono sicura che la creatività richiede coraggio. Se abbiamo una pagina bianca davanti e una matita, potremmo potenzialmente creare di tutto e con varie tecniche possibili. Se il timore del foglio bianco, del “tracciare una linea che non riproduce fedelmente un oggetto da riprodurre” superasse il desiderio di “plasmare”, probabilmente non tracceremmo nessun tratto o saremmo molto esitanti e imbalsamati, magari animati dalla convinzione che “noi non siamo capaci” o che “verrà bruttissimo”. Invece, quando il nostro desiderio supera i nostri possibili timori (presenti o assenti, noti o non noti), dentro sappiamo che “è ovvio che ce la faremo”; allora il nostro desiderio si farà spazio e la matita sarà un nostro mezzo, una parte di mano e di mente, con cui emergeranno segni che completeranno una nostra rappresentazione. Probabilmente trasporremmo i nostri modelli di rappresentazione della realtà in un’altra forma (come se noi avessimo delle coordinate soggettive per capire il mondo, spiegarcelo e raccontarlo che trovano uno spazio al di fuori di noi…su un foglio). Se usassimo parole per creare dei nuovi versi, potremo veicolare significati a parole; se preferissimo figure per creare qualcosa, trasporremmo significati con un mezzo non verbale. Quindi il secondo modo consentirebbe di comunicare significati pre-verbali e, si ritiene, archetipici, inconsci… Comunque vedano un’opera d’arte gli psicoanalisti, c’è da dire che il suo valore è scevro da interpretazioni che, pur plausibili, costituirebbero un filtro parziale di lettura che da solo non può descrivere la complessità di un uomo, di un autore, di un grande artista innovatore, del processo artistico con il suo valore catartico. Voglio dire che dare della creatività e a “ciò che l’uomo crea” interpretazioni monotematiche e compartimentate non potrà restituirci il suo significato essenziale. Il suo valore vitale dal punto di vista antropologico, spirituale, sacrale… Può darsi che la creatività sia stata necessaria per adopearsi nel superare un ostacolo o nel raggiungere un obbiettivo. Ad esempio ordinare delle parole chiave su un foglio per elaborare in gruppo una idea nuova e riflettere sui nessi tra le parole. Oppure ad esempio gli antichi rappresentavano uomini, animali, lotte, divinità, formule con funzione apotropaica, divinatoria, rituale o per descrivere un trionfo ad esempio con fine celebrativo. Qualunque siano state le ragioni che hanno portato gli uomini a “creare”, “ideare” e quindi esprimere, certamente dovevano essere viscerali, forse insite nella nostra natura, nelle nostre necessità. Magari D’Annunzio, che amava l’ardore (e essere plateale…), avrà potuto sentire la necessità di mostrarsi; ma probabilmente, nel rispondere a questo ipotetico bisogno, non avrà potuto non apprezzare l’atto del fare poesia. Quello che voglio dire è che indipendentemente dai nostri bisogni, fare arte è un momento di liberazione, catarsi, abbandono, divertimento che chi ha l’abitudine di creare ama. Voglio dire che l’essere creativi può essere un modo per rispondere ad un bisogno, ma è nell’atto del creare che la creatività si manifesta. E l’atto del creare è un universo ricco, un po’ come l’atto dello studiare per amore della conoscienza. E’ qualcosa di simile. Appartiene al dominio del “fare” perchè chi crea deve “agire”, quindi si deve mettere nel flusso, in movimento, fluttuare verso la nuova forma, plasmare la nuova forma. Ad alcuni, la capacità di “plasmare” (o di esprimere qualcosa in una forma, ad esempio una scultura realistica) dovette sembrare straordinaria, sovraumana tanto che in vari antichi miti, un dio plasma l’uomo come un artigiano con un vaso di argilla su un tornio.
“Abituato a trascurare i dettagli e a guardare solo le cime, passava da una vetta all’altra con una velocità sorprendente ed i fatti che egli scopriva si raggruppavano essi stessi intorno al loro centro e si organizzavano istantaneamente e automaticamente nella sua memoria.” Belliver (1956) su Poincarè